23/02/2020
Quando villa Pamphilj doveva far parte della Città del Vaticano.
Oggi sono in pochi a ricordarlo, ma durante le trattative preliminari per la soluzione della “questione romana” tra Stato Italiano e Chiesa Cattolica, quest’ultima formulò l’istanza di incorporare, all’interno del territorio Vaticano, anche villa Doria Pamphilj.
E in un primo tempo, pur con alcuni dubbi relativi alla distanza tra le due aree ed allo status da accordare a quelle intermedie necessarie a collegarle, tale richiesta venne accolta da parte Italiana.
Per questo nel 1926, in una prima stesura, l’avvocato Francesco Pacelli ed il consigliere di Stato professor Domenico Barone incaricati delle trattative, inserirono tale cessione.
Ma i dubbi iniziali, e in particolare la clausola che prevedeva per la Chiesa Cattolica una “esclusiva giurisdizione sovrana” su queste due aree (villa Doria Pamphilj e quella intermedia) provocarono l’intervento dell’allora capo dello Stato Benito Mussolini, che non voleva sentir parlare di sovranità ma, semplicemente, di immunità, inespropriabilità ed esenzioni fiscale: a quel punto (siamo ormai nel marzo 1928), Papa Pio XI recedette dall’iniziale richiesta, acconsentendo che la cessione avvenisse nei termini prospettati dal Governo Italiano.
Fortunatamente per noi cittadini di “oggi”, le trattative si arenarono nuovamente, stavolta per le perplessità del Re d’Italia che tardava a fornire le proprie indicazioni al Capo del Governo. Quest’ultimo (Benito Mussolini) aveva infatti approvato un articolo del futuro Trattato che recitava:
“Per dare modo alla Santa Sede di esplicare più agevolmente il suo eminente Ufficio, l’Italia cede alla Medesima in uso perpetuo ed irrevocabile, dietro il pagamento di un canone annuo pari a una lira, da versare al Tesoro dello Stato Italiano nella prima decade del mese di gennaio di ogni anno, Villa Pamphilj ed i terreni che tra essa ed il Vaticano esistono entro i confini tracciati nell’allegato 1 del presente Trattato.
Cede inoltre alla Medesima, del pari in uso perpetuo ed irrevocabile e pel canone sopra indicato, l’area occorrente alla costruzione di un cavalcavia della lunghezza massima di metri sessanta, che autorizza la Santa Sede a costruire nella zona indicata nell’allegato suddetto, al fine di congiungere direttamente il Vaticano con i terreni e la Villa sopra menzionati…”
Da quanto riportato nella documentazione a nostra disposizione, non risulta chiaro dove dovesse esser realizzato il citato cavalcavia, anche perché, in precedenti stesure, le realizzazioni dovevano essere due: uno che passasse sopra la via Aurelia e un altro che superasse via Tiradiavoli, l’odierna Aurelia Antica.
Così come non è chiaro quali dovessero essere le aree intermedie necessarie a congiungere la Città del Vaticano con villa Pamphilj: l’unico dato certo è che la soluzione prospettata allora avrebbe visto occupati 410 ettari… dieci volte tanto gli attuali 44!
Ma, nonostante alcune successive modifiche che prevedevano la villa mantenesse la sua caratteristica di parco (pur con la concessione, alla Santa Sede, di poterne edificare una zona) ed un’altra riguardante la proprietà degli immobili, questa parte del trattato continuava a suscitare le preoccupazioni di Re Vittorio Emanuele III.
A trarlo d’impaccio, fu di nuovo Papa Pio XI che nell’ottobre 1928, per sbloccare l’impasse ed agevolare la soluzione della “questione” (pare anche per considerazioni di natura finanziaria oltre che politica) decise di rinunciare completamente a villa Doria Pamphilj ed alla zona che l’avrebbe dovuta collegare al Vaticano.
Per questo, ma non solo per questo (la narrazione continuerà in un prossimo album) oggi siamo qui, affacciati su via Aurelia Antica, e volgendo lo sguardo verso nord, ammiriamo a 1700 metri di distanza in linea d’aria… “er Cuppolone” felici e riconoscenti per quanto ci abbia riservato la Storia!
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